domenica 8 novembre 2009

MILITARIZED DIPLOMACY: LA POLITICA ESTERA ERITREA TRA CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ (Parte ultima)

Considerazioni Conclusive

Volendo mettere in luce alcuni elementi caratterizzanti la politica estera eritrea, una premessa è d’obbligo. Infatti, le posizioni prese dal paese in diplomazia non possono che rispecchiare la necessità di preservare e di rafforzare la propria identità di nuovo attore della comunità internazionale e regionale. Il concetto di sovranità nel Corno d’Africa è, storicamente, un valore molto sentito, e sulla cui base sono state spesso combattute guerre drammaticamente sanguinarie (come quella dell’Ogaden del 1977-78 tra Etiopia e Somalia e quella di confine del 1998-2000 tra Eritrea ed Etiopia). Inoltre, uno degli effetti dell’ultimo conflitto del 1998-2000 è stato certamente rappresentato dalla ridefinizione dell’appartenenza “nazionale” di entrambi i contendenti. I trent’anni di guerra di liberazione nazionale dell’EPLF, infatti, furono percepiti sostanzialmente come qualcosa di “interno” all’Etiopia. L’ultimo conflitto, invece, trattandosi di una guerra tra due paesi sovrani, sembra aver avuto un esito inverso. In questo caso, infatti, è stata l’Eritrea “l’altro” contro cui (e per cui) l’identità nazionale etiopica andava a (ri)definirsi. Questa riflessione sembra piuttosto veritiera se si considera inoltre che, a seguito della vittoria del 2000, il governo etiopico non ha mai cercato di riassorbire l’Eritrea, né di avanzare rivendicazioni territoriali, ad eccezione della sola zona che fu causa del conflitto. Un metodo valido, quindi, per capire le posizioni – talvolta spregiudicate – del governo eritreo in politica estera resta quello di impostare una riflessione utilizzando un approccio di longue durée, identificando più che altro gli elementi di continuità che hanno caratterizzato i rapporti internazionali eritrei, dalla lotta di liberazione nazionale fino all’entrata del paese nella comunità internazionale. La vittoria militare dell’EPLF nei confronti dell’esercito etiopico, come abbiamo visto, è certamente servita – oltre che a modellare e rafforzare un sentimento di unità nazionale eritreo – come fattore di radicalizzazione della politica estera del paese.

L’efficiente organizzazione militare sperimentata durante gli anni della guerriglia antietiopica è stata quasi interamente trasferita nei quadri e nelle strutture di governo del periodo post-indipendenza, determinando così una militarizzazione anche dell’attuale struttura amministrativa statale. Storicamente, i problemi legati alla sovranità del paese (dalla deposizione della struttura federale da parte di Haile Selassie nel 1963, alla lunga guerra di liberazione conclusasi solo nel 1991, fino ad arrivare all’ultimo conflitto transfrontaliero con l’Etiopia del 1998-2000), hanno finito col plasmare una diplomazia “tradizionalmente aggressiva”, sia nel linguaggio, sia nei rapporti bilaterali e multilaterali regionali.

L’Eritrea, inoltre, è anche uno “Stato di frontiera”. Questo concetto, rispetto al ruolo e alla posizione politica e geografica del paese, è stato sempre caratterizzato da una certa ambivalenza. In altre parole, esso sembra imporsi sia in senso fisico (l’Eritrea ha tra i propri vicini importanti realtà statuali come Etiopia e Sudan, ma è anche posizionata in un punto strategico del Mar Rosso, che ne fa un anello di incontro con la penisola araba), sia in senso ideologico (il popolo eritreo ha vissuto per anni in opposizione alla dominazione di un “centro” rappresentato dalla realtà imperiale etiopica, e ancora oggi la propaganda del governo di Asmara sembra essere tutta indirizzata a enfatizzare una possibile minaccia esterna e a preservare i confini raggiunti durante gli anni di lotta di liberazione).

Per riassumere, quindi, “frontiera” e “militarizzazione” sembrano essere i punti cardinali di una politica estera, quella di Asmara, impostata quasi su una conservazione ossessiva della propria identità di stato indipendente. Ogni eritreo, infatti, vive costantemente in uno stato di allerta e immerso in una propaganda che enfatizza il pericolo di un’invasione imminente. È anche per questo che storicamente la politica estera eritrea può essere definita quasi come una militarized diplomacy. Inoltre, pur essendo difficile prospettarne riconversioni nel breve periodo – principalmente a causa dei continui screzi con l’Etiopia – è indubbio che solo una “smilitarizzazione” e una “smobilitazione”, non solo degli apparati militari, ma anche della politica estera stessa del paese, possano far rientrare definitivamente i rischi di una nuova escalation di violenza nel Corno d’Africa. Vero è che le due sfide vanno di pari passo, e che in assenza di un ridimensionamento dell’anima militarista che contraddistingue oggi il governo Afwerki, sarà comunque difficile averne lo stesso effetto in politica estera.

La guerra di confine del 1998-2000 e la demarcazione del confine eritreo-etiopico rappresentano ancora una ferita aperta nel complesso scacchiere regionale. Ma la risposta della comunità internazionale non appare essere stata adeguata alle prerogative del complicato stato dei rapporti tra i due contendenti, causando da un lato il sorgere di velleità egemoniche regionali, mentre dall’altro – oltre ad un forte senso di sfiducia nei confronti degli attori di intermediazione internazionale – una pericolosa radicalizzazione sia in politica estera sia interna. Il fallimento della demarcazione – e quindi anche degli accordi di Algeri – sta principalmente nel fatto di aver lasciato “politicizzare” una questione volutamente tenuta – almeno inizialmente – in una sfera puramente “tecnocratica”. Gli accordi di Algeri infatti (nella proposta avanzata dagli USA e dal Rwanda) sono stati condotti principalmente all’interno di una sfera tecnica, lasciando perlopiù insolute le questioni politiche di fondo. Queste sono riassumibili in almeno tre punti: 1) Il principio di conservazione dei confini coloniali in Africa sub-sahariana sancito dall’allora Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) durante il vertice del Cairo del 1964. La commissione sui confini – proprio per non derogare a tale principio – non poteva agire ex aequo et bono, attenendosi esclusivamente ai trattati stipulati in epoca coloniale tra l’Italia e l’Etiopia. 2) L’Etiopia ha vinto l’ultimo confronto militare del 1998-2000. Sembra quindi chiaro come la prospettiva del passaggio del villaggio di Badme all’Eritrea abbia fatto scattare nel paese un certo campanello d’allarme, e la paura di una “vittoria mutilata” ottenuta con enormi dispendi economici e umani. 3) L’Eritrea, dal proprio canto, è stata certamente la vincitrice morale, oltre che militare, della guerra di liberazione nazionale, ottenuta attraverso enormi sacrifici e nel quasi totale isolamento internazionale. Uno scontro tra due vincitori quindi? Forse, ma il problema non sembra essere il confine in sé.

Inoltre, gli strumenti usati per contenere una nuova escalation del conflitto hanno finito per produrre l’effetto contrario. A fronte di tali complicanze internazionali – e soprattutto regionali – si può certamente notare come i linguaggi usati in diplomazia dai due paesi – seppur orientati entrambi verso lo scontro frontale – siano in realtà profondamente e caratterialmente diversi. Mentre quello del governo Zenawi appare più disposto alla diplomazia e meno militarista (senza dimenticare che l’Etiopia ha rifiutato per prima le decisioni della commissione sui confini, oltre ad aver invaso militarmente la Somalia adducendo come motivazione principale la necessità di annientare i movimenti jihadisti presenti nel paese e sostenuti, secondo Addis Abeba, dall’Eritrea), quello di Afwerki sembra quantomeno più ruvido e spregiudicato. Questa caratteristica rischia di far scivolare l’Eritrea nel completo isolamento internazionale. Infatti, non sono in pochi a considerare Asmara come una delle fonti principali di instabilità nel Corno d’Africa, fino a diventare – secondo lo stesso governo degli Stati Uniti – un vero e proprio “stato canaglia”, quasi al pari di Iran e Corea del Nord.

Vero è che un approccio meno “globale”, e più “regionale”, da parte della comunità internazionale – Washington in testa – avrebbe certamente evitato una tale degenerazione politica. Ma del resto è anche piuttosto risaputo che – con una brevissima eccezione durante l’ultimo periodo di amministrazione Carter – il Corno d’Africa è stato sempre inserito all’interno di ampie strategie geopolitiche, che poco o nulla avevano a che fare con dinamiche e priorità politiche più locali, facendone al contempo una delle aree più contese dell’Africa sub-sahariana, ma anche una delle meno “comprese”.

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