giovedì 19 novembre 2009

Il Massacro di Wia - The Wia Massacre


Il Massacro di Wia
Versione italina di N.T.
Un altro riprovevole uccisione di massa è stato il massacro di WIA. Il rapporto del 2006 del Dipartimento di Stato americano, "Country Reports on Human Rights Practices" riferisce che 'il 10 giugno [2005] il personale militare uccise 161 giovani, che tentavano di fuggire dal campo militare di Wia.' Nessuna azione è stata presa nei confronti del personale militare che ha sparato e ucciso i 161 giovani. Le vittime erano arruolate nel NMSP (National Military Service Programme), finite in prigione nel campo di detenzione per diverse ragioni.
Il massacro aveva lo scopo di terrorizzare altri, affinchè non decidessero di lasciare il paese 'illegalmente' o non tentassero la fuga una volta finiti in stato di detenzione. Il campo militare di WIA era lo stesso luogo dove, nel 2001, circa 2000 studenti universitari sono stati detenuti arbitrariamente per diverse settimane dopo aver protestato contro il lavoro estivo, una politica impopolare del governo. Durante la detenzione, due studenti universitari, Yirga Yosief e Yemen Tekie, sono morti a causa delle dure condizioni di vita nel campo.


The Wia Massacre

by Daniel
Another reprehensible mass killing was the Wia Massacre. Quoting the US Department of State, in its 2006 Country Reports on Human Rights Practices reported that ‘on June 10 [2005] military personnel shot and killed 161 youths at Wia Military Camp who were trying to escape.’ No action was taken against military personnel who shot and killed the 161 youths. The victims were conscripts of the NMSP (National Military Service Programme), who were being kept in the detention camp for several reasons.
The massacre was meant to terrorise other conscripts, lest they decide to leave the country ‘illegally’ or escape once they were in detention. Wia Military Camp was the same place where, in 2001, some 2000 university students were arbitrarily detained for several weeks after protesting against the unpopular government policy of summer work. During the detention, two university students, Yirga Yosief and Yeman Tekie, died as a result of the harsh living conditions in the camp.

martedì 17 novembre 2009

Il Massacro di Mai Habar - The Mai Habar Massacre


Il Massacro di Mai Habar
Versione italina di N.T.

La principale causa della repressione in Eritrea è l'eccessiva concentrazione di potere all'interno del ramo esecutivo del governo. La brutale repressione della rivolta di veterani invalidi di guerra è stata una delle prime manifestazioni di questo triste sviluppo: evento accaduto nel lontano 11 luglio 1994, conosciuto come il Massacro di Mai Habar. In questo episodio, un numero imprecisato di manifestanti sono stati uccisi, presumibilmente su ordine diretto del Presidente dello Stato. Durante il secondo anniversario del Massacro di Mai Habar, il bollettino ufficiale della EFL-RC (Eritrean Liberation Front-Revolutionary Council) lamentava che in quel fatidico giorno gli invalidi di guerra sono stati uccisi solo per aver pacificamente protestato e successivamente chiesto con fermezza un incontro con il presidente dello Stato, che ostinatamente rifiutava di incontrarli.

Altre vittime associate al Massacro di Mai Habar sono i circa 25 veterani di guerra disabili, che sono stati immediatamente arrestati con il pretesto di istigare alla ribellione. Rimasti in stato di detenzione senza processo per diversi anni. La stessa fonte citata le parole del presidente che riferendosi agli invalidi di guerra dice 'mocciosi viziati.' Il presidente attribuisce la causa dell'incidente a presunti atti irresponsabili dei manifestanti stessi.


The Mai Habar Massacre
by Daniel
Concentration of excessive power within the executive branch of government has been the major cause of repression in Eritrea. One of the earliest manifestations of this sad development was the brutal repression of the mutiny of disabled war veterans on 11 July 1994, known as the Mai Habar Massacre. In this incident, an unknown number of protestors were shot dead, allegedly on direct orders from the state president. During the second anniversary of the Mai Habar Massacre, the official newsletter of the EFL-RC (Eritrean Liberation Front-Revolutionary Council) lamented that on that fateful day the disabled war veterans were killed simply for peacefully protesting and firmly demanding to meet the state president, who obstinately refused to meet them.

Other victims associated with the Mai Habar Massacre are some 25 disabled war veterans, who were immediately arrested on the pretext of instigating rebellion. They remained in detention without trial for several years. The same source has quoted the state president as referring to the disabled war veterans as ‘spoilt brats.’ The president has also blamed the incident on alleged irresponsible acts of the protestors themselves.

giovedì 12 novembre 2009

Yemen summons Eritrean ambassador for alleged arms supply to rebels


www.chinaview.cn 2009-11-10
Yemeni Foreign Minister Tuesday summoned Eritrean ambassador to Yemen following alleged tips that Eritrea provides weapons to anti-government rebels in Yemen, a diplomat at the Yemeni Foreign Ministry said.

"The Ministry got evidence and valuable information that Eritrea facilitates conveying weapons through its coastlines -- provided from a foreign country -- to the Zaidi rebels in northern Yemen," the diplomat told Xinhua by phone on condition of anonymity.

He said coastguards of Yemen often intercepted boats full of concealed weapons sailing from an Eritrean coastal city to Medi port adjacent to bastions of Zaidi rebels, named Houthis after their slain leader's clan.

"Rebels go to Eritrea as Yemeni fishermen in disguise to avoid being intercepted by the Yemeni coast guards, and come back with their boat full of concealed weapons," said the diplomat, adding "at night they docked at Medi and unloaded the weapons to vehicles awaited at some specific places."

The diplomat hinted at the possibility of using Eritrean soil as a base by Iran, but providing no further details.

Sanaa has often said that Iran is backing Shiite rebels in Yemen, an accusation which Iran has always denied.

Eritrea is situated in the Horn of Africa, off Yemeni northern coastline and Saudi city of Jizan on the Red Sea, where high-level skirmishes between Yemeni rebels and Saudi military forces have erupted after anti-government rebels crossed into the Saudi soil of Jizan.

mercoledì 11 novembre 2009

Gulag degli studenti eritrei

by N.T. 30 settembre 2009
Era la metà del mese di luglio e il mondo aspettava il summit del G8 a genova. Televisioni sintonizzate sulla riunione dei governanti dei maggiori paesi industrializzati. I No-Global manifestano insieme alle associazioni pacifiste. Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza in tenuta antisommossa. Esercito in allerta. La tessione comincia a montare; l'informazioni da voce anche ai manifestanti. I telegiornali non parlano d'altro. Guerriglia urbana, Black-Block, tafferugli e cariche della degli agenti. Tutti sembrano perdere il senso della realtà. Il mondo è sgomento davanti all'uccisione di Carlo Giuliani; vengono mostrati i video di quel sciagurato incidente. Il pestaggio dei manifestanti che avviente successivamente alla scuola Diaz e per le strade, viene trasmesso come un prolungato dolore. Fermiamo gli eventi che si susseguono in occidente e rivolgiamo la nostra attenzione all'Eritrea.

In quei giorni addirittura in quelle ore c'erano in corso manifestazioni ad Asmara degli studenti Universitari. Perchè gli studenti eritrei protestavano? Perchè questi dissensi verso il proprio governo anche in un paese africano? E' noto che gli studenti di tutto il mondo durante le vacanze estive sono meno impegnati a causa delle ferie. In eritrea invece durante l'estate ogni studente di qualsiasi grado ha l'obbligo di partecipare alle attività (chiamati in tigrino MAATOT) promosse dalla dittatura. C'è persino un programma estivo di proselitismo politico di giovani occidentali di origine eritrea. Ecco qui come esempio il programma del 2008; 2 giorni di celebrazione speciale dedicato ai giovani del Canada e Stati Uniti: [http://na.nueys.org/flyer/Guideline%20for%20Participation.pdf]

Praticamente colonie di ragazzi vengono inviati per lavori in villaggi (e non villaggi turistici) situati in regioni remote. In quasi 18 anni di gestione amministrativa del regime di Afewerky, quasi ogni estate, a parte qualche eccezione, tutti gli studenti sono stati obbligati ai lavori forzati nei Gulag eritrei. Sfruttamente del lavoro minorile, violazione del diritto di libertà e movimento, lavori forzati, schiavitù, punizioni fisiche ecc... ecc... Le violazioni non si contano.
Naturalmente i rappresentati dei universitari dopo lunghi anni di silenzio paziente, manifestarono a nome di tutti gli studenti, protestarono contro questa pratica di sfruttamente, contrapponendosi al regime in modo deciso. Non l'avessero mai fatto; in quell'occasione la repressione fu brutale. Da quel istante in poi la storia del governo eritreo si incamminò verso un punto di non ritorno piena di orrori.

Si può chiedere in giro, sia a diplomatici occidentali che ad autorità, della manifestazione degli studenti universitari, bollata poi come un tentativo di golpe contro il governo. In base a questa accusa gli studenti furono deportati in campi di detenzione militare. Una testimonianza descrive in modo dettagliato di cosa è successo in quel periodo agli studenti universitari di asmara: [http://www.awate.com/portal/content/view/4025/6/]

Questa storia di repressione di massa si conclude per molti giovani universitari il 7 Novembre 2001 dopo mesi di torture e agonie, con almeno due morti tra gli studenti ( Yirga Yosief -14 agosto 2001 e Yemane Tekie - 19 agosto 2001). Le atrocità si sono consumate in diversi campi di prigionia, tra cui solo il campo militare Wia ha convolto 2000 studenti detenuto arbitrariamente. Lo smantellamento dell'università e la distruzione dell'istruzione era solo all'inizio. Ecco un post di riflessione sul perchè della chiusura dell'Università di Asmara:
[http://admasinexile.blogspot.com/2008/03/why-demolishing-sole-university-in.html]

Scambio epistolare con un giornalista

by N.T. 30 settembre 2009

La brutta storia dei figli di Petros Solomon ci sta a cuore, come ci sta a cuore la popolazione civile eritrea che non ha voce per gridare il proprio dolore.
[http://www.awate.com/portal/content/view/5233/3/]
[http://www.awate.com/portal/content/view/5216/3/]

[http://espresso.repubblica.it/dettaglio/desaparecidos-d-africa/2111093]

Quando ho informato molti colleghi studenti di Asmara della sparizione (cattura) dei ragazzi, alcuni mi hanno suggerito di non mettere a repentaglio la fuga dei figli di Petros, altri mi hanno chiesto se facevo il gioco di qualche opposizione e continuavano a chiedermi perchè mi interessavo di questi ragazzi.

Mio malgrado, la brutta notizia l'ho avuta durante il periodo che si svolge l'esame di maturità in Italia che coincide a quello delle scuole italiana all'estero. I ragazzi di Petros erano spariti proprio il giorno prima dell'inizio dell'esame e nessuno riusciva ad individuare dove erano finiti. Nemmeno le telefonate alla zia, con la quale vivevano i ragazzi, hanno potuto risolvere la questione.

Probabilmente la notorietà dei genitori di questi ragazzi e la mancata presenza all'esame finale, che non si poteva rimandare, inquietava i professori e studenti. C'era (c'è tutt'ora) un sospetto che membri dei servizi eritrei abbiano organizzato il sequestro e poi fabbricato la storia della fuga. Il sospetto nasce, poichè, i ragazzi erano abbastanza bravi da meritarsi borse di studio per l'estero. In due anni avrebbero potuto concludere i doveri di cittadini eritrei e potevano sperare di uscire dal paese a studiare all'estero.

Personalmente mi sento coinvolto in questa storia solo perchè loro hanno seguito le orme dove sono passato io. Hanno frequentato la stessa scuola e magari gli stessi professori. Allora l'osservazioni di alcuni, i quali chiedevano del perchè continuare a raccontare solo la storia dei figli di Petros, possono essere dei dubbi validi.

Ho pensato quindi che forse bisogna "informare" l'opinione pubblica sia italiana che quella italo-eritrea delle diverse attrocità compiute dal regime di Iseyas Afewerky. Anzi al posto del termine "informare" userei "ricordare", poichè molti sono a conoscienza dei fatti e ma hanno la memoria corta.

domenica 8 novembre 2009

MILITARIZED DIPLOMACY: LA POLITICA ESTERA ERITREA TRA CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ (Parte ultima)

Considerazioni Conclusive

Volendo mettere in luce alcuni elementi caratterizzanti la politica estera eritrea, una premessa è d’obbligo. Infatti, le posizioni prese dal paese in diplomazia non possono che rispecchiare la necessità di preservare e di rafforzare la propria identità di nuovo attore della comunità internazionale e regionale. Il concetto di sovranità nel Corno d’Africa è, storicamente, un valore molto sentito, e sulla cui base sono state spesso combattute guerre drammaticamente sanguinarie (come quella dell’Ogaden del 1977-78 tra Etiopia e Somalia e quella di confine del 1998-2000 tra Eritrea ed Etiopia). Inoltre, uno degli effetti dell’ultimo conflitto del 1998-2000 è stato certamente rappresentato dalla ridefinizione dell’appartenenza “nazionale” di entrambi i contendenti. I trent’anni di guerra di liberazione nazionale dell’EPLF, infatti, furono percepiti sostanzialmente come qualcosa di “interno” all’Etiopia. L’ultimo conflitto, invece, trattandosi di una guerra tra due paesi sovrani, sembra aver avuto un esito inverso. In questo caso, infatti, è stata l’Eritrea “l’altro” contro cui (e per cui) l’identità nazionale etiopica andava a (ri)definirsi. Questa riflessione sembra piuttosto veritiera se si considera inoltre che, a seguito della vittoria del 2000, il governo etiopico non ha mai cercato di riassorbire l’Eritrea, né di avanzare rivendicazioni territoriali, ad eccezione della sola zona che fu causa del conflitto. Un metodo valido, quindi, per capire le posizioni – talvolta spregiudicate – del governo eritreo in politica estera resta quello di impostare una riflessione utilizzando un approccio di longue durée, identificando più che altro gli elementi di continuità che hanno caratterizzato i rapporti internazionali eritrei, dalla lotta di liberazione nazionale fino all’entrata del paese nella comunità internazionale. La vittoria militare dell’EPLF nei confronti dell’esercito etiopico, come abbiamo visto, è certamente servita – oltre che a modellare e rafforzare un sentimento di unità nazionale eritreo – come fattore di radicalizzazione della politica estera del paese.

L’efficiente organizzazione militare sperimentata durante gli anni della guerriglia antietiopica è stata quasi interamente trasferita nei quadri e nelle strutture di governo del periodo post-indipendenza, determinando così una militarizzazione anche dell’attuale struttura amministrativa statale. Storicamente, i problemi legati alla sovranità del paese (dalla deposizione della struttura federale da parte di Haile Selassie nel 1963, alla lunga guerra di liberazione conclusasi solo nel 1991, fino ad arrivare all’ultimo conflitto transfrontaliero con l’Etiopia del 1998-2000), hanno finito col plasmare una diplomazia “tradizionalmente aggressiva”, sia nel linguaggio, sia nei rapporti bilaterali e multilaterali regionali.

L’Eritrea, inoltre, è anche uno “Stato di frontiera”. Questo concetto, rispetto al ruolo e alla posizione politica e geografica del paese, è stato sempre caratterizzato da una certa ambivalenza. In altre parole, esso sembra imporsi sia in senso fisico (l’Eritrea ha tra i propri vicini importanti realtà statuali come Etiopia e Sudan, ma è anche posizionata in un punto strategico del Mar Rosso, che ne fa un anello di incontro con la penisola araba), sia in senso ideologico (il popolo eritreo ha vissuto per anni in opposizione alla dominazione di un “centro” rappresentato dalla realtà imperiale etiopica, e ancora oggi la propaganda del governo di Asmara sembra essere tutta indirizzata a enfatizzare una possibile minaccia esterna e a preservare i confini raggiunti durante gli anni di lotta di liberazione).

Per riassumere, quindi, “frontiera” e “militarizzazione” sembrano essere i punti cardinali di una politica estera, quella di Asmara, impostata quasi su una conservazione ossessiva della propria identità di stato indipendente. Ogni eritreo, infatti, vive costantemente in uno stato di allerta e immerso in una propaganda che enfatizza il pericolo di un’invasione imminente. È anche per questo che storicamente la politica estera eritrea può essere definita quasi come una militarized diplomacy. Inoltre, pur essendo difficile prospettarne riconversioni nel breve periodo – principalmente a causa dei continui screzi con l’Etiopia – è indubbio che solo una “smilitarizzazione” e una “smobilitazione”, non solo degli apparati militari, ma anche della politica estera stessa del paese, possano far rientrare definitivamente i rischi di una nuova escalation di violenza nel Corno d’Africa. Vero è che le due sfide vanno di pari passo, e che in assenza di un ridimensionamento dell’anima militarista che contraddistingue oggi il governo Afwerki, sarà comunque difficile averne lo stesso effetto in politica estera.

La guerra di confine del 1998-2000 e la demarcazione del confine eritreo-etiopico rappresentano ancora una ferita aperta nel complesso scacchiere regionale. Ma la risposta della comunità internazionale non appare essere stata adeguata alle prerogative del complicato stato dei rapporti tra i due contendenti, causando da un lato il sorgere di velleità egemoniche regionali, mentre dall’altro – oltre ad un forte senso di sfiducia nei confronti degli attori di intermediazione internazionale – una pericolosa radicalizzazione sia in politica estera sia interna. Il fallimento della demarcazione – e quindi anche degli accordi di Algeri – sta principalmente nel fatto di aver lasciato “politicizzare” una questione volutamente tenuta – almeno inizialmente – in una sfera puramente “tecnocratica”. Gli accordi di Algeri infatti (nella proposta avanzata dagli USA e dal Rwanda) sono stati condotti principalmente all’interno di una sfera tecnica, lasciando perlopiù insolute le questioni politiche di fondo. Queste sono riassumibili in almeno tre punti: 1) Il principio di conservazione dei confini coloniali in Africa sub-sahariana sancito dall’allora Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) durante il vertice del Cairo del 1964. La commissione sui confini – proprio per non derogare a tale principio – non poteva agire ex aequo et bono, attenendosi esclusivamente ai trattati stipulati in epoca coloniale tra l’Italia e l’Etiopia. 2) L’Etiopia ha vinto l’ultimo confronto militare del 1998-2000. Sembra quindi chiaro come la prospettiva del passaggio del villaggio di Badme all’Eritrea abbia fatto scattare nel paese un certo campanello d’allarme, e la paura di una “vittoria mutilata” ottenuta con enormi dispendi economici e umani. 3) L’Eritrea, dal proprio canto, è stata certamente la vincitrice morale, oltre che militare, della guerra di liberazione nazionale, ottenuta attraverso enormi sacrifici e nel quasi totale isolamento internazionale. Uno scontro tra due vincitori quindi? Forse, ma il problema non sembra essere il confine in sé.

Inoltre, gli strumenti usati per contenere una nuova escalation del conflitto hanno finito per produrre l’effetto contrario. A fronte di tali complicanze internazionali – e soprattutto regionali – si può certamente notare come i linguaggi usati in diplomazia dai due paesi – seppur orientati entrambi verso lo scontro frontale – siano in realtà profondamente e caratterialmente diversi. Mentre quello del governo Zenawi appare più disposto alla diplomazia e meno militarista (senza dimenticare che l’Etiopia ha rifiutato per prima le decisioni della commissione sui confini, oltre ad aver invaso militarmente la Somalia adducendo come motivazione principale la necessità di annientare i movimenti jihadisti presenti nel paese e sostenuti, secondo Addis Abeba, dall’Eritrea), quello di Afwerki sembra quantomeno più ruvido e spregiudicato. Questa caratteristica rischia di far scivolare l’Eritrea nel completo isolamento internazionale. Infatti, non sono in pochi a considerare Asmara come una delle fonti principali di instabilità nel Corno d’Africa, fino a diventare – secondo lo stesso governo degli Stati Uniti – un vero e proprio “stato canaglia”, quasi al pari di Iran e Corea del Nord.

Vero è che un approccio meno “globale”, e più “regionale”, da parte della comunità internazionale – Washington in testa – avrebbe certamente evitato una tale degenerazione politica. Ma del resto è anche piuttosto risaputo che – con una brevissima eccezione durante l’ultimo periodo di amministrazione Carter – il Corno d’Africa è stato sempre inserito all’interno di ampie strategie geopolitiche, che poco o nulla avevano a che fare con dinamiche e priorità politiche più locali, facendone al contempo una delle aree più contese dell’Africa sub-sahariana, ma anche una delle meno “comprese”.

giovedì 5 novembre 2009

Albania: il bavaglio dell'informazione

by Lady Eagle in collaborazione con Michele. 5/11/2009
Sono passati ormai quasi vent'anni dalla caduta del muro di Berlino e soprattutto della cadauto del Regime Comunista in Albania. Il vento di cambiamento ha portato con sè anche sofferenza, disuguaglianza sociale e conseguentemente esodo di generazioni. Padri e figli ingiottiti dal mare e dalla tempesta, consumati dal freddo e dal caldo nella speranza in un futuro migliore. Generazioni in lotta di sopravvivenza perdute nei fondali marini e mai restituite ai familiari.
Emigrati dall'Albania e discriminati perchè ultimi nella scala sociale, segregati e spogliati di ogni diritto; al loro arrivo privati della loro libertà di movimento, perseguitati per il loro credo religioso e pensiero politica. Tutte violazioni in una terra che credevano migliore e civile. In un occidente dove si professa la libertà di stampa, di comunicazione, di movimento, di pensiero, di espressione e di fede, gli emigrati vedono negati i loro diritti basilari e spesso soggetti a campagne denigratorie proprio dalla stampa libera.
Ormai vent'anni dall'89, ma la bellissima terra delle Aquile è passata dal Regime Comunista ad un Regime Democratico, dal Dittatore Enver Hoxha al dittatore Sali Berisha.
Vent'anni è un tempo ragionevole per cambiare, ma la mia terra è ancora nelle mani di organi "politici autoritari" e del "bavaglio dell'informazione". Dove i ricchi spadroneggiano e gli altri subiscono senza fiatare. Perchè chi parla farà i conti con chi comanda.
A chi viola il "silenzio stampa" imposto de facto, come ha fatto una testata giornalistica di opposizione con ironia e con prove tangibili, viene applicata una sanzioni che prevede anche il divieto di pubblicazione.
Divieto di pubblicazione per 296 giorni solo per aver criticato il governo albanese, come nei peggiori regimi totalitari. Chi, se non la stampa locale deve verificare l'operato dei governanti. I capi del governo e gli amministratori stanno al vertice del paese non per comandare ma per governare. Probabilmente molti dittatori conoscono affondo la sottile differenza semantica tra governo e comando.
Mero Base, editore e fondatore del giornale bandito dalla pubblicazione, spinto dal dovere professionale per il diritto di cronaca, continua con determinazione a raccontare dettagliatamente le sue verità informando clandestinamente sopratutto via web.

L'editore Mero Base è ormai divenuto giornalista che contrasta la politica di Sali Berisha. Il Primo Ministro Berisha è un uomo di potere che sta ai vertici da ormai un vettennio. Primo ministro dal 1992 al 1997, nel opposizione dal 1997 al 2005, nel 2005 divenne primo ministro per la seconda volta. Nelle elezioni contestate del 2009 è risultato vicitore e continua tuttora ad esecitare il suo potere sull'Albania. E' un personaggio controverso, nel settembre 1998 ha preso parte a Tirana nel tentato colpo di stato contro il governo Nano dopo l'uccisione del deputato democratico Azem Hajdari.
Ma ad un personaggio autoritario non basta avere il potere di governo, vuole anche controllare il pensiero dei cittadini e quindi scatta la persecuzione di ogni forma di differenziazione. Si professa il concetto che dice:" Un solo cuore, una sola nazione". Coloro i quali hanno una diversa visione da chi comanda sono nemici del paese.
Ed ecco puntualmente che arrivano le aggressioni verso l'editore Mero Base per mano di Rezart Taçi fatte proprio per intimidire. L'assurdo e che il picchiatore Rezart Taçi è il rispettabilissimo presidente della Taçi Oil, presidente del Klubi Sportiv Gramozi Ersekë (squadra di calcio Albanese), presidente della lega schacchi albanese. Un magnate albanese talmente ricco che ha avuto il pallino di comprarsi il Bologna calcio. Avete capito bene il Bologna FC 1909, che milita nella Serie A italiana. L'80% delle quote azionarie del Bologna sono del patron Rezart Taçi. La Taçi Oil è un'azienda che opera nel settore dell'estrazione petrolifero.
In uno stato autoritario solo coloro che godono dell'ombra protettiva del dittatore possono arricchirsi a discapito dei cittadini. Il patron Rezart Taçi amico fidato del premier Sali Berisha pesta a sangue impunemente l'editore Mero Base.
Sali Berisha publicamente pronuncia parole di condanna contro il gesto di aggressione ma in modo celato vigila sui propri interessi e persegue ogni forma di libertà di stampa ed espressione. In questi giorni un gruppo di giornalisti e attivisti della società civile hanno manifestato davanti all'ufficio del primo ministro per contestare la mancata azione concreta del governo albanese. Ricordo per la cronaca che l'editore Mesa Base fu brutalmente assalito al Bar Capriccio, nel centro di Tirana, quartiere Bllok. L'aggressione selvaggia da parte di Rezart Taçi e delle sue guardie del corpo è durata vari minuto interrotta forse dalla perdità di conoscenza dell'editore. Non c'è niente di umano in questa cattiveria non c'è niente di albanese in questa aggressione. L'albania paese di Maria Terese di Calcutta è un paese di carità e di accoglienza; non deve essere preda di affaristi senza scrupoli.
Fiera di essere nata nella terra delle Aquile, fiera del sangue fiero di un popolo sempre in lotta dico NO a questo governo senza dignità e senza rispetto, dico NO ad uno dei dittatori ancora in piedi, dico NO a quei paesi muti davanti alle atrocità e chiedo voce per un popolo che ha diritto di parlare, di lavorare e di vivere senza aver paura.

MILITARIZED DIPLOMACY: LA POLITICA ESTERA ERITREA TRA CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ (Parte III)

Rapporti regionali

Per valutare i rapporti regionali eritrei post-indipendenza è bene analizzare i legami, oltre che con l’Etiopia, anche con il Sudan, specialmente dopo la metà degli anni Novanta.
Allora infatti, le relazioni tra i due paesi sembravano essere piuttosto tese, soprattutto per il sostegno del governo di Khartoum fornito ad alcuni gruppi jihadisti eritrei e – in seguito – a causa del vertice di Sana’a, svoltosi tra i leader di Etiopia, Yemen e Sudan, il quale si sarebbe configurato di lì a poco come un vero e proprio “fronte diplomatico” di contenimento antieritreo. L’incontro nella capitale araba, infatti, avvenuto nel 2002 tra il primo ministro etiopico Meles Zenawi, il presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir e il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh, chiuse senz’altro un sistema di alleanze (solo all’apparenza di origine economica) per molti aspetti ostili ad Asmara, che, da parte sua, aveva contribuito quantomeno a incoraggiare. Questo accerchiamento diplomatico, infatti, fu certamente il frutto da un lato della guerra portata avanti dall’Eritrea nei confronti dello Yemen per l’arcipelago delle isole Hanish (conclusa solo 1998) e dall’altro del sostegno ai ribelli sudanesi dell’Eastern Front, presenti nella regione di confine di Kassala, e a cui il governo di Khartoum aveva sempre risposto con il supporto al Movimento Eritreo del Jihad Islamico (additato dagli apparati di governo di Asmara quale maggiore responsabile degli attentati nelle città di Barentu e di Tesseney del maggio 2004).

Lo scenario appena descritto ha però subito – in particolare negli ultimi due anni – una modifica assai significativa. Ciò è stato soprattutto il prodotto di un’inversione di marcia di Isaias in merito alle relazioni con Sudan e Yemen. L’accordo di Asmara del 14 ottobre 2006, che ha posto fine al conflitto armato tra i ribelli del Sudan Eastern Front ed il governo di Khartoum, ha rappresentato – all’interno del complesso scacchiere regionale del Corno d’Africa – un’innegabile vittoria per la diplomazia di Afwerki. Le parole di apprezzamento spese dalla sua controparte Al-Bashir durante l’ultimo vertice del COMESA (Common Market for Eastern and Southern Africa) tenutosi nel Gibuti, “per l’impeccabile ruolo di mediatore giocato da Asmara nelle trattative e – nello specifico – per la disponibilità del suo presidente ad aver concorso attivamente alla realizzazione degli incontri”, hanno contribuito a capitalizzare l’uscita definitiva dell’Eritrea dall’isolamento.
Di conseguenza, il “Fronte di Sana’a” ha subito un consistente ridimensionamento, che il nuovo corso delle relazioni eritreo-sudanesi ha contribuito innegabilmente ad accelerare.

È innegabile, comunque, come altri fattori indiretti abbiano giocato a favore di Asmara. L’attuale raffreddamento dei rapporti tra Addis Abeba e Gibuti ad esempio, dovuti alla scelta dell’amministrazione Zenawi di non fare del porto gibutino l’unico sbocco sul mare del paese – intavolando rapporti di collaborazione per l’usufrutto di Port Sudan – non è che uno dei fattori indiretti di questo ribaltone diplomatico. Il ministro dei trasporti e delle comunicazioni etiope ha infatti da poco annunciato la volontà di unire Port Sudan con la città etiopica di Moyale tramite una linea ferroviaria, in modo da considerare seriamente la sostituzione parziale del Gibuti (anche per l’aumento esponenziale dei costi richiesti dalla società araba di gestione del porto) come canale preferenziale di sbocco sul Mar Rosso.
L’allontanamento del Gibuti dall’Etiopia, e il suo successivo avvicinamento all’Eritrea, ha aperto la strada anche al dialogo con altri paesi del Mar Rosso, come dimostra il miglioramento delle relazioni con lo Yemen. Nel dicembre 2004 Afwerki ha effettuato la prima visita ufficiale a Sana’a. Il mutamento dei rapporti tra i due paesi ha avuto inizio con la risoluzione della Corte Internazionale dell’Aja, a seguito dell’invasione delle isole Hanish (situate all’imboccatura del Mar Rosso) da parte dell’Eritrea nel 1995. La sentenza ha consegnato l’isola maggiore dell’arcipelago (Hanish, appunto) allo Yemen, mentre le isole minori sono state ripartite tra i contendenti, evitando nuovi contrasti in merito allo sfruttamento delle risorse ittiche. Ulteriore testimonianza del rinnovato spirito di cooperazione risulta essere lo scambio di visite dell’estate del 2006 tra il presidente Isaias e la sua controparte yemenita Ali Abdullah Saleh. Durante i colloqui i due leader hanno avuto l’occasione di discutere di molti aspetti legati alle relazioni bilaterali tra i due paesi, rafforzando le prospettive di una futura cooperazione anche in campo economico.

Il riavvicinamento politico di Asmara verso vicini importanti quali Sudan e Yemen non appare pertanto essere casuale. Inoltre, la giustificazione antietiopica – almeno in questo caso – potrebbe non risultare sufficiente per coglierne totalmente le motivazioni. Non è un mistero, infatti, che Khartoum e Sana’a, oltre a rappresentare due vicini geopoliticamente importanti, sono altresì due paesi produttori di petrolio. Il Sudan soprattutto – grazie anche alla relativa stabilizzazione raggiunta nelle regioni del sud con la firma del CPA (Comprehensive Peace Agreement) del gennaio del 2005 – rappresenta il terzo maggior produttore di petrolio dell’Africa sub-sahariana, alle spalle solo di Nigeria e Angola. Isaias ne è assolutamente consapevole, ed è inoltre cosciente del fatto che il suo paese attualmente attraversa un grave stato di emergenza energetica. I tagli alle forniture elettriche in tutto il territorio eritreo, infatti, rimangono al momento molto frequenti, anche se dall’autunno del 2006 (proprio in contemporanea con la stipula degli accordi di Asmara tra l’Eastern Front e il governo sudanese presieduto da Al-Bashir), questi non sembrano estendersi più alla capitale.

mercoledì 4 novembre 2009

MILITARIZED DIPLOMACY: LA POLITICA ESTERA ERITREA TRA CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ (Parte II)

Asmara: identità, indipendenza e conflitti di uno stato “sviluppista”

L’identità eritrea emerse soprattutto in contrapposizione alla realtà imperiale etiopica subito prima dell’invasione fascista dell’Abissinia del 1935. Secondo gli storici, essa fu il prodotto di tre fattori principali. Primo, della crescita di un’ideologia discriminatoria indirizzata contro le popolazioni etiopiche assoggettate durante il colonialismo italiano, rispetto ad un popolo eritreo considerato sotto l’ombrello protettivo del “civilizzatore”. Secondo, del boom economico che si registrò in Eritrea subito prima dell’invasione italiana dell’Etiopia. E terzo, del ruolo delle truppe eritree nell’invasione fascista dell’Etiopia (si calcola che circa 50.000 unità dell’esercito italiano fossero allora costituite da ascari). Queste tre caratteristiche contribuirono alla nascita di un primo “confine” tra la colonia italiana e Addis Abeba, concorrendo non poco alla formazione dell’identità eritrea e al mito del paese come zona più sviluppata dell’impero, convinzione questa radicata in parte anche nella retorica della guerra di liberazione.

Dopo la sconfitta italiana nella seconda guerra mondiale, l’Eritrea fu temporaneamente posta sotto amministrazione fiduciaria britannica, prima che l’ONU decidesse di federarla all’Etiopia nel 1952. La sua completa annessione da parte di Haile Selassie come quattordicesima provincia dell’impero nel 1962 scatenò anche la prima resistenza armata sul territorio. L’Eritrean Liberation Front (ELF) cominciò delle azioni di guerriglia già nel 1961, ma nel 1970 una piccola fazione del gruppo si separava dalla formazione originaria, prendendo poi il nome – nel 1975 – di Eritrean People’s Liberation Front (EPLF). La tensione tra l’ELF e l’EPLF si concluse solo nel 1982, quando l’ELF fu sconfitto dall’EPLF, che rimase così l’unico movimento di contrapposizione al regime di Menghistu, che nel frattempo aveva destituito tramite un colpo di stato militare l’imperatore Haile Selassie. L’Eritrean People’s Liberation Front riuscì, infine – anche grazie all’aiuto indiretto di altri gruppi di opposizione alla giunta militare etiopica, come il Tigray People’s Liberation Front (TPLF) e l’Oromo Liberation Front (OLF) – a liberare la città di Asmara, e così l’Eritrea, il 24 maggio 1991. Dopo la caduta del Dergue nel giugno del 1991, la coalizione che aveva contribuito alla sua sconfitta, l’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF), prese il potere in Etiopia, dichiarando un periodo di transizione di due anni prima di indire un referendum sull’indipendenza eritrea. Nell’aprile del 1993 gli eritrei si espressero in favore dell’indipendenza, e così nel maggio dello stesso anno l’EPLF dichiarò il paese come uno Stato indipendente, il quale nasceva dai medesimi confini ereditati dall’ex colonia italiana. La configurazione dell’Eritrea nello scacchiere internazionale e regionale ha evidenziato come i suoi confini siano stati discussi e modellati nel tempo da forze prettamente “esterne”. Il paese pertanto può essere descritto come una classica “terra di confine”, un’entità territoriale posta da sempre in aperto conflitto con i suoi importanti vicini, come lo stato etiopico, quello sudanese e quelli arabi che affacciano sul Mar Rosso.

Le basi ideologiche per lo sviluppo politico dell’Eritrea post-guerra di liberazione sono poi state trascritte nella National Charter for Eritrea, approvata dal terzo congresso dell’EPLF/PFDJ nel febbraio del 1994.
Proprio durante questo congresso il Fronte decise di cambiare il proprio nome in People Front for Democracy and Justice (PFDJ), con l’intento di sottolineare la conclusione della guerra di liberazione e il passaggio dell’amministrazione da un’ala militare ad una civile.
Una delle prime misure prese dal PFDJ per rafforzare il senso di appartenenza nazionale fu proprio quella di imbastire una leva militare obbligatoria per tutti gli uomini e donne che avessero raggiunto almeno un’età di diciotto anni. Unendo così in un unico esercito giovani Kunama, Afar, Beni Amer e Tigrini, il nuovo governo cercava di accrescere e cementificare lo stesso spirito nazionalista sperimentato durante gli anni di lotta di liberazione.

Quando l’Eritrea raggiunse l’indipendenza formale nel 1993, il proprio confine con l’Etiopia era ancora fissato da una serie di trattati coloniali italo-etiopici (segnati nel 1900, 1902 e 1908). Nonostante questo, la frontiera non venne mai totalmente demarcata, causando non pochi problemi di usufrutto delle terre e dispute amministrative in diversi villaggi. Il 6 maggio 1998, un piccolo gruppo di soldati eritrei entrava in un’area contesa nei pressi del villaggio di Badme, che comunque si trovava sotto amministrazione etiopica fin dal 1962. Il piccolo e circoscritto confronto a fuoco che ne seguì causò l’acuirsi di una tensione ben più estesa, che portò allo scoppio di una vera e propria guerra transfrontaliera. A seguito dei bombardamenti etiopici sulle città di Massaua, Asmara e Assab, il paese accettò un documento di pace stilato dall’allora Organizzazione dell’Unità Africana (OUA). Così, nell’agosto del 1999 entrambe le parti in conflitto accettarono in principio la mediazione dell’OUA, che portò – dopo un massiccia offensiva etiopica nel maggio del 2000 – all’accordo di Algeri, siglato il 18 giugno del 2000. L’accordo prevedeva la creazione di una zona cuscinetto lungo tutto il confine eritreo-etiopico larga circa 25 Km e denominata Temporary Security Zone (TSZ). L’intera striscia di sicurezza venne situata interamente in territorio eritreo e presieduta all’origine da circa 4.000 caschi blu dell’ONU, appartenenti alla missione UNMEE (United Nations Mission for Eritrea and Ethiopia).

Il trattato di Algeri venne definitivamente ratificato dal primo ministro etiopico Meles Zenawi e dal presidente eritreo Isaias Afwerki nel dicembre del 2000. Inoltre, l’approvazione del disegno di pace inaugurava due commissioni, le quali avrebbero dovuto da un lato registrare e regolare le rivendicazioni dei due contendenti (EECM – Eritrea and Ethiopia Claim Commission) e dall’altro provvedere all’implementazione della demarcazione del confine (EEBC - Eritrea and Ethiopia Boundary Commission). La Commissione per i confini, in accordo con il proprio trattato istitutivo, aveva il compito di provvedere a una demarcazione sulla base di alcuni trattati coloniali ( trattati italo-etiopici del 1900, 1902 e 1908). L’organo, pertanto, non possedeva competenze tali da imporre decisioni sulla questione ex aequo et bono. In particolare, i suoi membri erano privi della facoltà di esprimere giudizi basati su principi di equità ma, al contrario, le proprie funzioni dovevano esclusivamente attenersi ai testi dei trattati istituiti in epoca coloniale. La decisione della commissione si concretizzò quindi nel marzo del 2003, sancendo – di fatto – il diritto di appartenenza eritrea sul villaggio di Badme. Il rifiuto etiopico della decisione dell’EEBC determinò, però, uno stallo nelle trattative sul confine, di cui ancora oggi non se ne riesce a vedere una soluzione.

La nuova escalation di tensione legata al contenzioso sul confine è stata inoltre accompagnata – tra il maggio 2005 ed il luglio del 2006 – dall’espulsione dei caschi blu europei, statunitensi e russi dall’Eritrea e da una riduzione consistente del contingente UNMEE, che oggi conta circa 2500 uomini (di cui 230 osservatori), così come sancito dalla risoluzione 1681 del 31 maggio del 2006. Nonostante i numerosi richiami del Consiglio di Sicurezza dell’ONU allo spirito di Algeri – accompagnati inoltre da vere e proprie minacce di sanzioni – entrambe le parti si rifiutano ancora oggi di sedersi nuovamente al tavolo delle trattative, sacrificando l’azione diplomatica a vantaggio di una nuova – ma non inedita – “delocalizzazione” del conflitto. Questa tendenza è stata inoltre testimoniata dall’entrata dei due paesi nell’intricata crisi somala, la quale ha visto l’allineamento di almeno due fronti ben distinti, che oggi vedono contrapporsi da un lato le istituzioni federali di transizione con sede a Baidoa e a Mogadiscio – sostenute e protette politicamente e militarmente dal governo Zenawi – e dall’altro l’Alleanza per la Liberazione della Somalia (ALS), nata nel settembre del 2007 ad Asmara sotto l’ombrello protettivo del governo Afwerki.
L’Alleanza per la Liberazione della Somalia (ALS) è un movimento di opposizione al Governo Federale di Transizione nato nel settembre del 2007 ad Asmara. Esso comprende circa 400 delegati, inclusi l’ex presidente della Shura dell’Unione delle Corti Islamiche Hassan Dahir Aweys, l’ex presidente del comitato esecutivo delle Corti Sharif Sheikh Ahmad, l’ex presidente del parlamento di transizione Sharif Hassan Sheikh Aden e l’ex vice primo ministro del governo federale di transizione Hussein Mohamed Farah Aidid.

Attualmente l’Eritrea è governata da un sistema a partito unico (People Front for Democracy and Justice – PFDJ), dove non esiste alcuna opposizione politica e dove il settore dell’informazione è tenuto ben saldo nelle mani dell’esecutivo attraverso il ministero dell’informazione. L’economia e le sue forze produttive sono state interamente nazionalizzate. Il paese perciò – anche secondo la visione di numerosi analisti internazionali – corrisponde per molti aspetti ad un classico esempio di “stato sviluppista”. Infatti, il suo attuale sistema di governance si compone di due caratteristiche principali: una ideologica e un’altra più strutturale. La componente strutturale sta nel fatto che il potere politico basa la propria legittimità principalmente nella capacità di promuovere e sostenere lo sviluppo dall’interno, limitando al minimo i flussi di aiuto internazionale (ciò spiega anche la difficoltà di organizzazioni non governative a lavorare e promuovere progetti di sviluppo nel paese). A livello ideologico, invece, l’elite di governo deve essere capace in qualsiasi momento di imporre “un’egemonia ideologica” sulla società. In altre parole, gli anni che hanno contraddistinto l’operato del governo di Asmara sembrano essere sostanzialmente il frutto di un processo di state-building spiccatamente gestito “dall’alto” dall’elite politica al potere. Esso inoltre non fa che presentarsi significativamente in controtendenza rispetto allo spirito degli anni di lotta di liberazione e al tipo di accountability allora sperimentato, fatto di inclusività e partecipazione dal basso, soprattutto tra la popolazione rurale dell’altopiano.

martedì 3 novembre 2009

MILITARIZED DIPLOMACY: LA POLITICA ESTERA ERITREA TRA CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ (Parte I)


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Questo articolo è il frutto delle riflessioni e degli interventi scaturiti da una conferenza organizzata dal centro di ricerca di politica internazionale Chatham House di Londra il 17 dicembre 2007 e dal titolo “Eritrea’s Regional Role and Foreign Policy: Past, Present and Future Perspectives"


LIMES, RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA
di Matteo Guglielmo
pubblicato il 26/2/2008 su http://www.limesonline.com





I rapporti politici tra Etiopia ed Eritrea sembrano essere nuovamente degenerati. I venti di guerra si avvicinano, mentre si respira la medesima atmosfera che precedette l’ultimo confronto bellico del 1998-2000. Importanti centri di ricerca internazionale, come l’International Crisis Group e il Chatham House, concordano nel ritenere la situazione agli sgoccioli. Le motivazioni politiche di questa nuova escalation, che potrebbe rischiare di trascinare anche altri paesi del Corno d’Africa, Somalia in testa.


"La storia dei confini regionali dell’Eritrea non va più indietro di un centinaio di anni. Tutti gli eritrei sono nati uguali. Nessun gruppo etnico è superiore o inferiore ad altri. L’Eritrea appartiene equamente ad ogni eritreo. Il nuovo governo pertanto si batterà sempre contro qualsiasi forza disgregatrice volta a creare conflitti regionali e religiosi nel paese."
Estratto del discorso del presidente Isaias Afwerki durante l’inaugurazione delle nuove divisioni amministrative regionali del paese (zoba) nel 1995.



Asmara, 20 agosto 2007. Il presidente eritreo Isaias Afwerki si appresta a rilasciare una lunga e densa intervista alla TV nazionale ERITV riguardante lo stato dei rapporti con Washington. Da due anni a questa parte, infatti, i legami
con gli Stati Uniti sembrano essere decisamente deteriorati. Le posizioni di Isaias in politica estera – talvolta spregiudicate – hanno spesso lasciato attonite non solo gran parte delle diplomazie occidentali, ma anche la stessa amministrazione statunitense, la quale – tramite il proprio inviato speciale Jendayi Frazer – è da poco intervenuta sul ruolo eritreo all’interno della crisi somala, definendo “pericolosi terroristi” alcuni esponenti delle deposte Corti Islamiche di Mogadiscio presenti attualmente ad Asmara, e accusando così l’Eritrea di appoggiare e sostenere il terrorismo internazionale nel Corno d’Africa.

Alle accuse del segretario del Dipartimento di Stato dei mesi scorsi ha prontamente risposto il ministro dell’informazione eritreo Ali Abdu, il quale ha da subito definito “ingiustificato” l’intervento della Frazer, sottolineando non solo l’impegno del paese contro il terrorismo internazionale di matrice islamica, ma contrattaccando alle parole del segretario definendo la posizione di Washington “arrogante e volta a svolgere un’attività di pressione politica sul governo eritreo”. Seppure la diplomazia di Asmara rimanga perlopiù un tema di difficile lettura, soprattutto nel breve periodo, lo scambio di battute tra l’Eritrea e l’amministrazione Bush sottolinea il ruolo d’importanza che il paese ricopre attualmente all’interno del balance of power del Corno, rivelando inoltre una certa insofferenza nei confronti della base “discriminatoria” del progetto di equilibrio regionale etiopicostatunitense. Questo, infatti, secondo le parole dello stesso presidente Afwerki, sarebbe diretto più che altro alla subordinazione delle numerose “periferie” della regione; dalla Somalia all’Ogaden, dall’Eritrea al Darfur.

L’Eritrea ha certamente dimostrato un ottimo grado d’institution-building a seguito della sua vittoria militare per l’indipendenza, contro un’Etiopia dapprima appoggiata dagli Stati Uniti (1953-1977), e successivamente sostenuta – durante buona parte del periodo di governo del Dergue – dall’Unione Sovietica (1977-1991). Il paese, negli ultimi quindici anni, è riuscito a legittimare il proprio status di nuovo attore della comunità internazionale a seguito di un referendum vinto dalle forze indipendentiste con quasi il 98,5% dei voti, e dove si espressero il 99,8% degli aventi diritto. La leadership politica, che dopo il 1993 ha guidato il paese attraverso la transizione delle istituzioni da movimento di guerriglia ad amministrazione di stampo civile, si è presentata però profondamente divisa, soprattutto in merito al modello di governance da adottare. In seguito, infatti, prevalse all’interno dell’esecutivo una linea politica certamente più pragmatica, ma drammaticamente antidemocratica, principalmente a causa dei numerosi contenziosi legati ai confini che hanno visto l’Eritrea contrapporsi ai suoi importanti vicini per buona parte della seconda metà degli anni Novanta, fino allo scoppio della guerra di frontiera con l’Etiopia del 1998. Quest’ultimo conflitto in particolare, sembra aver trascinato il paese in un vortice di mobilitazione militare e di repressione politica senza precedenti, i quali hanno finito col comprometterne pesantemente le prospettive di democratizzazione. La situazione è ulteriormente deteriorata nel 2006, con l’aumento delle misure detentive ai danni di numerosi dissidenti politici, accompagnate da una forte restrizione dell’attività di ONG e agenzie di aiuto internazionale presenti sul territorio. L’indipendenza eritrea, ottenuta dopo quasi trent’anni di guerriglia, portata avanti prima dall’Eritrean Liberation Front e poi dall’Eritrean People’s Liberation Front (EPLF), ha determinato un deciso accentramento del potere politico, oggi tenuto ben saldo nelle mani nella leadership militare dell’ex comandante – e attuale presidente – Isaias Afwerki. La costituzione, ratificata nel 1997 non è stata ancora implementata, e le elezioni politiche sono state rimandate a tempo indeterminato.

L’Eritrea vive in una perpetua situazione di emergenza, e il continuo stato di tensione con l’Etiopia non solo domina tutti i discorsi politici, ma sembra servire al regime stesso come strumento di mobilitazione e militarizzazione interna.


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