martedì 3 novembre 2009

MILITARIZED DIPLOMACY: LA POLITICA ESTERA ERITREA TRA CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ (Parte I)


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Questo articolo è il frutto delle riflessioni e degli interventi scaturiti da una conferenza organizzata dal centro di ricerca di politica internazionale Chatham House di Londra il 17 dicembre 2007 e dal titolo “Eritrea’s Regional Role and Foreign Policy: Past, Present and Future Perspectives"


LIMES, RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA
di Matteo Guglielmo
pubblicato il 26/2/2008 su http://www.limesonline.com





I rapporti politici tra Etiopia ed Eritrea sembrano essere nuovamente degenerati. I venti di guerra si avvicinano, mentre si respira la medesima atmosfera che precedette l’ultimo confronto bellico del 1998-2000. Importanti centri di ricerca internazionale, come l’International Crisis Group e il Chatham House, concordano nel ritenere la situazione agli sgoccioli. Le motivazioni politiche di questa nuova escalation, che potrebbe rischiare di trascinare anche altri paesi del Corno d’Africa, Somalia in testa.


"La storia dei confini regionali dell’Eritrea non va più indietro di un centinaio di anni. Tutti gli eritrei sono nati uguali. Nessun gruppo etnico è superiore o inferiore ad altri. L’Eritrea appartiene equamente ad ogni eritreo. Il nuovo governo pertanto si batterà sempre contro qualsiasi forza disgregatrice volta a creare conflitti regionali e religiosi nel paese."
Estratto del discorso del presidente Isaias Afwerki durante l’inaugurazione delle nuove divisioni amministrative regionali del paese (zoba) nel 1995.



Asmara, 20 agosto 2007. Il presidente eritreo Isaias Afwerki si appresta a rilasciare una lunga e densa intervista alla TV nazionale ERITV riguardante lo stato dei rapporti con Washington. Da due anni a questa parte, infatti, i legami
con gli Stati Uniti sembrano essere decisamente deteriorati. Le posizioni di Isaias in politica estera – talvolta spregiudicate – hanno spesso lasciato attonite non solo gran parte delle diplomazie occidentali, ma anche la stessa amministrazione statunitense, la quale – tramite il proprio inviato speciale Jendayi Frazer – è da poco intervenuta sul ruolo eritreo all’interno della crisi somala, definendo “pericolosi terroristi” alcuni esponenti delle deposte Corti Islamiche di Mogadiscio presenti attualmente ad Asmara, e accusando così l’Eritrea di appoggiare e sostenere il terrorismo internazionale nel Corno d’Africa.

Alle accuse del segretario del Dipartimento di Stato dei mesi scorsi ha prontamente risposto il ministro dell’informazione eritreo Ali Abdu, il quale ha da subito definito “ingiustificato” l’intervento della Frazer, sottolineando non solo l’impegno del paese contro il terrorismo internazionale di matrice islamica, ma contrattaccando alle parole del segretario definendo la posizione di Washington “arrogante e volta a svolgere un’attività di pressione politica sul governo eritreo”. Seppure la diplomazia di Asmara rimanga perlopiù un tema di difficile lettura, soprattutto nel breve periodo, lo scambio di battute tra l’Eritrea e l’amministrazione Bush sottolinea il ruolo d’importanza che il paese ricopre attualmente all’interno del balance of power del Corno, rivelando inoltre una certa insofferenza nei confronti della base “discriminatoria” del progetto di equilibrio regionale etiopicostatunitense. Questo, infatti, secondo le parole dello stesso presidente Afwerki, sarebbe diretto più che altro alla subordinazione delle numerose “periferie” della regione; dalla Somalia all’Ogaden, dall’Eritrea al Darfur.

L’Eritrea ha certamente dimostrato un ottimo grado d’institution-building a seguito della sua vittoria militare per l’indipendenza, contro un’Etiopia dapprima appoggiata dagli Stati Uniti (1953-1977), e successivamente sostenuta – durante buona parte del periodo di governo del Dergue – dall’Unione Sovietica (1977-1991). Il paese, negli ultimi quindici anni, è riuscito a legittimare il proprio status di nuovo attore della comunità internazionale a seguito di un referendum vinto dalle forze indipendentiste con quasi il 98,5% dei voti, e dove si espressero il 99,8% degli aventi diritto. La leadership politica, che dopo il 1993 ha guidato il paese attraverso la transizione delle istituzioni da movimento di guerriglia ad amministrazione di stampo civile, si è presentata però profondamente divisa, soprattutto in merito al modello di governance da adottare. In seguito, infatti, prevalse all’interno dell’esecutivo una linea politica certamente più pragmatica, ma drammaticamente antidemocratica, principalmente a causa dei numerosi contenziosi legati ai confini che hanno visto l’Eritrea contrapporsi ai suoi importanti vicini per buona parte della seconda metà degli anni Novanta, fino allo scoppio della guerra di frontiera con l’Etiopia del 1998. Quest’ultimo conflitto in particolare, sembra aver trascinato il paese in un vortice di mobilitazione militare e di repressione politica senza precedenti, i quali hanno finito col comprometterne pesantemente le prospettive di democratizzazione. La situazione è ulteriormente deteriorata nel 2006, con l’aumento delle misure detentive ai danni di numerosi dissidenti politici, accompagnate da una forte restrizione dell’attività di ONG e agenzie di aiuto internazionale presenti sul territorio. L’indipendenza eritrea, ottenuta dopo quasi trent’anni di guerriglia, portata avanti prima dall’Eritrean Liberation Front e poi dall’Eritrean People’s Liberation Front (EPLF), ha determinato un deciso accentramento del potere politico, oggi tenuto ben saldo nelle mani nella leadership militare dell’ex comandante – e attuale presidente – Isaias Afwerki. La costituzione, ratificata nel 1997 non è stata ancora implementata, e le elezioni politiche sono state rimandate a tempo indeterminato.

L’Eritrea vive in una perpetua situazione di emergenza, e il continuo stato di tensione con l’Etiopia non solo domina tutti i discorsi politici, ma sembra servire al regime stesso come strumento di mobilitazione e militarizzazione interna.


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